Il mutamento di religione da parte del coniuge, divenuto testimone di Geova, non può essere causa dell’addebito della separazione, nè dell’affido esclusivo dei figli all’altro genitore.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza 19/7/2016 n. 14728, rigettando il ricorso di una ex madre di due bambini: «nonostante l’incidenza sull’armonia della coppia», il mutamento di fede religiosa e la conseguente partecipazione alle pratiche collettive del nuovo culto, «configurandosi come esercizio dei diritti garantiti dall’articolo 19 Costituzione, non possono rappresentare, in quanto tali, ragioni sufficienti a giustificare la pronuncia di addebito». Sempre che «l’adesione al nuovo credo religioso non si traduca in comportamenti incompatibili con concorrenti doveri di coniuge e di genitore privilegiati dagli artt. 143 e 147 cod. civ». Per cui, correttamente, la Corte di merito non ha svolto alcuna indagine sulla confessione abbracciata, «limitandosi a rilevare che si tratta di un culto riconosciuto dallo Stato». Del resto, prosegue l’ordinanza, le indicazioni di principio contenute nei testi ufficiali, avrebbero potuto assumere rilevanza unicamente qualora si fossero tradotte «in atteggiamenti concreti, chiaramente contrari ai doveri dei coniugi».
Nessuna rilevanza può essere attribuita al tradimento dei valori cattolici, riguardando questi un accordo che, per quanto concordatario, resta destinato a spiegare efficacia «esclusivamente nell’ambito dell’ordine morale cattolico e dell’ordinamento canonico». Per analoghe ragioni, continua la Cassazione, «deve escludersi che la scelta spirituale compiuta dal marito potesse costituire di per sé una ragione sufficiente a giustificare l’affidamento esclusivo dei figli minori alla madre», una volta accertato che entrambi i coniugi erano in grado accudirli nella quotidianità.
Invece, ritiene la Corte che, conformemente ai suoi poteri e nell’interesse della prole, il Tribunale abbia ritenuto di fornire «ulteriori prescrizioni volte da un lato ad assicurare che il nuovo orientamento religioso del padre non influisca sulla continuità dell’indirizzo finora seguito nell’educazione dei figli, dall’altro ad evitare che le preoccupazioni manifestate al riguardo dalla madre si traducano in un eccessivo irrigidimento dei rapporti con l’altro genitore». Tali precauzioni, infatti, «trovano giustificazione nella giovanissima età dei minori (tredici e dieci anni) e nella conseguente esigenza di evitare che l’armonioso sviluppo della loro personalità possa risultare pregiudicato dall’effetto traumatico di un improvviso contatto con le nuove convinzioni religiose del padre», evitando che vengano sottoposti «ad indebite pressioni o condizionamenti, in contrasto con la libertà dei minori di seguire un proprio particolare percorso anche nel predetto settore».
In conclusione: se non ci sono condotte pregiudizievoli non può essere adottato alcun provvedimento che limiti il diritto dei genitori di instaurare un rapporto affettivo con i figli, «nel rispetto della vita familiare e religiosa»