La legge n.76/2016 prevede che, in caso di cessazione della convivenza, il partner debole abbia diritto agli alimenti, non al mantenimento. Gli alimenti spettano solo nel caso di vero e proprio stato di bisogno e consistono nello stretto necessario per vivere. Peraltro detti alimenti sono dovuti per un tempo proporzionale alla durata della convivenza. La tutela è quindi minima. Se il convivente “forte” non verso all’altro l’assegno alimentare, quest’ultimo può promuovere una causa ordinaria in Tribunale per far valere il proprio diritto.
Affinchè uno dei due sia invece tenuto a versare all’altro l’assegno di mantenimento vero e proprio, occorre che ciò sia pattuito in un contratto tra conviventi. La differenza tra conviventi e coniugi è dunque tanta: se per le coppie sposate, in caso di mancato accordo sull’ammontare del mantenimento, è il giudice che provvede e determina l’importo da versare a quello “debole”, per le coppie non sposate invece il tribunale non può mai intervenire in assenza di una specifica e preventiva intesa tra i due sul punto. Il giudice può condannare al versamento del mantenimento solo se previsto nel contratto tra conviventi.
Questo contratto ha tra il convenuto più diffuso la previsione del pagamento di una somma di denaro a titolo di mantenimento dell’altro convivente privo di reddito adeguato. Il contratto può stabilirne l’ammontare, le modalità di pagamento (ad es. in un’unica soluzione o a rate), la durata (ad es. per un periodo pari a quello di durata della convivenza) e le modalità di effettuazione (ad es. assegno circolare o bonifico bancario); Il contratto di convivenza può anche disporre la sorte della casa famigliare, ad esempio prevedendo che l parte debole vi continui a vivere fino a che non abbia trovato un nuovo alloggio. Può prevedere l’impegno ad acquistare un alloggio per l’altro, la contribuzione alle spese abitative, e così via.