Con sentenza depositata in data 2 ottobre 2012 la Corte di cassazione ribadisce una volta di più l’impossibilità di interpretare il diritto alla vita tutelato dal nostro ordinamento, come un diritto a non nascere se non sano.
La vicenda prende le mosse da una richiesta di risarcimento di danno conseguente ad un asserito inadempimento contrattuale formulata anche dall’attrice, madre di soggetto affetto da sindrome di Dawn. La stessa afferma che il medico ginecologo interpellato al fine di escludere qualsiasi tipo di malformazione del feto – la partoriente conosceva solo per sentito dire l’amniocentesi – non avrebbe svolto adeguati accertamenti non consentendole di abortire: scelta che avrebbe dichiaratamente altrimenti effettuato. La pronuncia, nell’affermare che potrebbe in generale ravvisarsi la legittimazione ad agire del soggetto nato, a tutela del suo diritto alla salute -p. 46 ss- ma negandolo in questo caso, senza discostarsi da alcuni precendenti affronta altresì il tema della riconosciuta legittimazione ad agire del padre. Nel caso di specie non si discute di nesso logico tra la condotta omissiva e l’handicap in se considerato ma della condotta del medico a fronte di una esplicita richiesta di informazioni finalizzate da parte della paziente. Il giudice d’appello aveva rigettato il gravame per l’illegittimità all’istanza da parte della oramai non più minore e per la ritenuta esenzione di colpa del medico, osservando peraltro che la sola indicazione del “Tritest” quale unica indagine diagnostica funzionale all’accertamento di eventuali anomalie fetali doveva ritenersi del tutto giustificato, stante la mancata prova della richiesta specifica di effettuare test maggiormente invasivi. La Corte adita non concorda con le valutazioni espresse e nel fare rinvio al giudice d’appello per un nuovo esame, ribadisce l’eventuale necessità di raggiungere la prova che la gestante si sarebbe poi determinata ad intervento abortivo anche in relazione alla gravità della malformazione non diagnosticata |