Nel nostro attuale ordinamento, i punti fermi sulla commisurazione del danno non patrimoniale – tenuto conto delle indicazioni che fornisce il legislatore, delle sentenze più significative della Cassazione, delle pronunce della Corte costituzionale, delle letture dottrinarie più recenti, della giurisprudenza anche di legittimità successiva alle c.d. sentenze di S. Martino (Cass. 26972/2008) – possono così sintetizzarsi:
Principio del Risarcimento integrale – Tutte le ripercussioni di tipo non patrimoniale (una volta appurata giudizialmente la loro effettività, sul piano naturalistico, la rilevanza sotto il profilo dell’antigiuridicità, la derivazione causale rispetto all’azione lesiva), debbono venir risarcite alla vittima: ciascuna in se stessa considerata, ognuna nella propria interezza.
Valutazione equitativa – In presenza di un danno “incerto nell’ammontare”, il giudice si vedrà esonerato (art.1226 c.c.) dal dovere di procedere secondo il consueto rigore logico-sistematico.
Nessuna licenza di arbitrio o di capriccio, beninteso. Alla stregua dell’id quod plerumque accidit, del ragionamento presuntivo, delle massime di saggezza, occorrerà venga ricostruita – quanto più fedelmente possibile – la “lastra” antropologica in cui il torto ha gettato l’offeso, nelle varie dimensioni e grandezze che la connotano: evitando duplicazioni istruttorie, ma altresì vuoti di riscontro e conteggio.
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Danno biologico, morale, esistenziale – Il panorama della law in action, in tema di sub-voci del danno non patrimoniale, appare oggi il seguente:
(a) Tanto il legislatore, quanto la giurisprudenza di Cassazione, hanno in più occasioni ribadito – durante gli ultimi anni – la necessità che a fini risarcitorî venga dato conto (al di là dell’unità nominale con cui il d. “non patrimoniale” si presenta nell’art 2059 c.c.) sia del danno biologico, sia del danno morale;
(b) Quanto al danno esistenziale, più d’uno sono i contesti legislativi in cui figurano disciplinate, specificamente, le “attività realizzatrici” della persona; e la necessità di ristorare i pregiudizi esistenziali è stata anch’essa ribadita – a più riprese – dalla Corte di Cassazione (da ultimo, Cass. civile, sez. III, 9 ottobre 2012, n. 17161, pres. Petti, rel. D’Amico: “Si deve altresì tener conto che in materia di risarcimento danni, in caso di lesione di un diritto fondamentale della persona, la regola, secondo la quale il risarcimento deve ristorare interamente il danno subito, impone di tenere conto dell’insieme dei pregiudizi sofferti, ivi compresi quelli esistenziali, purché sia provata nel giudizio l’autonomia e la distinzione degli stessi, dovendo il giudice, a tal fine, provvedere all’integrale riparazione secondo un criterio di personalizzazione del danno, che, escluso ogni meccanismo semplificato di liquidazione di tipo automatico, tenga conto, pur nell’ambito di criteri predeterminati, delle condizioni personali e soggettive del danneggiato, della gravità della lesione e, dunque, delle particolarità del caso concreto e della reale entità del danno”; cfr. altresì Cass. 21 aprile 2011, n. 9238).
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Pluralità delle voci, quantum finale unico – Incrociando fra loro queste varie indicazioni, la griglia da seguire appare in sintesi:
(i) Quello del danno “non patrimoniale” si presenta – specialmente dopo il boom del danno alla persona, negli ultimi decenni – come un sintagma alquanto vago, dai contorni laschi e sfuggenti: imperniato com’è su uno stilema puramente negativistico (niente più che un “non”), povero di contenuto, passibile di risolversi spesso in motivazioni evasive, deludenti sul piano esplicativo (tanto, poco, in base a quali dati, di più, di meno, perché?);
(ii) Le differenti voci del danno n.p. (biologico, morale, esistenziale) non sono astratte locuzioni di scuola, ma corrispondono a effettive peculiarità e molteplicità di vissuti, nell’esperienza di chi ha subito il torto;
(iii) La possibilità di farvi ricorso, onde ricomporre l’universo vittimologico (sia il valore delle stesse “normativo” piuttosto che “descrittivo”), garantisce al giudice uno strumento di apprezzabile rigore, a livello di inchiesta e di motivazione:
● le parti potranno meglio ritrovare, dalla lettura della sentenza, sia il “fatto” che il “diritto” della contesa (quali si presentano, nel riassunto dell’estensore), così da decidere a ragion veduta se e per quali motivi, eventualmente, impugnare;
● gli organi giudiziarî superiori, tanto più dinanzi a quantificazioni ingenti, saranno anch’essi nelle condizioni di poter verificare, da vicino, se i principi sulla responsabilità civile siano stati applicati bene o male;
(iiii) Unità del danno non patrimoniale altro non significa, in definitiva, che unicità “contabile” del quantum finale: è cioè il suggello in chiave aritmetica del dispositivo (con riguardo all’art.2059 c.c. o all’art. 1218 c.c, sub specie non patrimoniale); restano tuttavia, prima e al di sotto di quell’esito, le diverse tipologie ripercussionali, le quali – corredate o meno di proprie commisurazioni (in una sorta di contabilità in progress) – concorrono insieme alla determinazione del risultato.
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Converrà ricordare, a questo punto, quale sia il significato di ogni voce risarcitoria e precisare, subito dopo, come esse siano destinate a intrecciarsi fra di loro.
Danno biologico – Corrisponde non già alla lesione fisica in sé (impostazione eventistica, oggi tendenzialmente abbandonata), bensì essenzialmente alle “attività realizzatrici” (impostazione consequenzialistica), di cui la lesione psico-fisica impedisce alla vittima lo svolgimento, in via totale o parziale, perpetua oppure temporanea.
Danno psichico – Sottospecie del danno biologico; meglio sarebbe parlare di “lesione della salute mentale”, che nella nomenclatura dell’illecito corrisponde a un evento (lesione del bene integrità psichica): evento suscettibile di generare, secondo i casi, incidenze sfavorevoli di tipo patrimoniale, oppure di tipo biologico/esistenziale, oppure di tipo morale.
Danno morale – Pregiudizio che equivale al sentire interiore, cioè al danno morale negativo di cui alla Corte cost. 184/1986: tutto quanto di mesto e sofferenziale viene a toccare l’”anima” della vittima, come ad es. patemi d’animo, disperazione, sconforto, malinconia, infelicità (i famosi “cuscini bagnati di lacrime”).
Danno esistenziale – E’ ciò che (di vivo e di meritevole) il plaintiff non sarà più in grado di “fare” dopo il patimento dell’illecito, oppure che dovrà compiere di scadente e frustratorio, suo malgrado.
Vetrina a sua volta articolabile – a fini di indagine e valutazione – nelle diverse ribalte in cui i lieviti della persona tendono a esplicarsi, giorno per giorno: attività biologico/esistenziali di tipo ordinario (mangiare, dormire, camminare, ridere, comunicare, vedere la TV, etc.), relazioni pregiudicate di ordine affettivo-familiare, di ordine lavorativo-professionale, di ordine sociale-partecipativo, di ordine artistico-creativo, di ordine ludico- sportivo.
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Rapporti fra danno biologico e danno morale – La Cassazione ha in questi ultimi anni, interpretando un passo per la verità piuttosto oscuro delle S.U. 26972/08, ribadito più volte che il danno morale corrisponde a un’entità (a) ben distinta, in se stessa, rispetto al danno biologico, (b) da valutare e risarcire in quanto tale.
Il che acquisterà significato pratico, sottolineiamo, ogni qualvolta le percentuali o gli standard indicati in una determinata tabella – del danno biologico o non patrimoniale, di fonte legislativa o giurisprudenziale – non siano (non possano ritenersi) comprensivi anche dei momenti sofferenziali.
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Rapporti fra danno biologico e danno esistenziale – Danno biologico e danno esistenziale condividono fra loro il nocciolo (ripercussionale) “ontologico”, nocciolo che appare improntato, sia qui che là, al dato dell’esteriorità del (non più) fare o del dover fare.
■ Si tratta cioè sempre:
(i) di iniziative/occupazioni areddituali che il plaintiff vede sfumare, operativamente, nella propria agenda futura, cioè di attività non economiche (abituali e gradevoli) di cui viene insidiato lo svolgimento;
(ii) oppure di noie o incombenze che ci si troverà costretti a fronteggiare, a seguito dell’illecito, e di cui tutti nella quotidianità faremmo a meno (visite mediche, processi, litigi, code, spostamenti obbligati, liste d’attesa, burocrazia, etc.).
■ Occorre allora tenere presente:
(a) che il danno esistenziale si è affermato, nel lemmario storico del torto, come figura relativa a ipotesi di lesioni prettamente non biologiche;
(b) che successivamente la categoria in esame è stata utilizzata – da taluni – anche con riguardo all’ambito di tipo biologico, come strumento per contrassegnare cioè la quota di “personalizzazione” risarcitoria; al fine di denominare insomma la fascia delle attività idiosincratiche, colpite presso vittime di particolare versatilità o sofisticatezza (quale sinonimo insomma del c.d. “danno biologico dinamico”).
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■ Operativamente allora, là dove ad essere violata figuri l’integrità psicofisica della vittima:
Prima ipotesi – Ogniqualvolta non siano emerse, in istruttoria, valenze o attività areddituali (della cui compromissione l’attore risulti vittima) diverse per natura o intensità rispetto allo standard consueto del quivis e populo, la cifra di cui all’eventuale barème di riferimento potrà ritenersi onnicomprensiva e risolutiva.
Seconda ipotesi – In caso contrario occorrerà procedere, da parte del giudice, “anche” alla neutralizzazione della seconda fascia di pregiudizi, quelli più eccentrici e individualizzati; pregiudizi che molti interpreti (ecco il punto) tendono non di rado a denominare in maniera distinta rispetto alla prima, talvolta ricorrendo proprio alla formula “danni esistenziali”.
Corretto o meno che sia quest’uso diversificante, l’importante volta per volta è che:
– sia ben chiaro a chi deve decidere (sottolineiamo) che cosa andrà, in effetti, risarcito alla vittima;
– sia assodato non trattarsi, d’altro canto, di materiali lesivi già considerati/conteggiati in un altro passaggio.
Prof. Paolo Cendon
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