Se il marito è socio di una società in nome collettivo e la moglie semplicemente lo aiuta, non è configurabile una impresa familiare. La struttura di quest’ultima infatti è tale da determinare la qualità di imprenditore soltanto in capo ad un soggetto, rispetto al quale gli altri si pongono come collaboratori, ciò che è escluso dalla partecipazione quale socio in una compagine a base personale come nell’ipotesi all’attenzione dei giudici. Ne discendono rilevanti conseguenze, dal momento che alla persona che ha collaborato non possono applicarsi le peculiari norme (del tutto differenti rispetto a quelle applicabili in materia societaria) relative alla ripartizione degli utili, degli incrementi, di tutto quanto discende dalla speciale disciplina di cui all’art.230 bis cod.civ..
La Cassazione sez. lavoro, infatti, con la sentenza 20552/2015, ha stabilito che “L’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria, essenzialmente per la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione, oltre che per il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio in conflitto con le regole imperative del sistema societario. Neppure esso si può configurare tra due coniugi di cui uno eserciti un’attività commerciale in qualità di socio di una società di persone, difettando la sua qualità di imprenditore, esclusivamente propria della società”