Condannato per maltrattamenti in famiglia il padre che picchia e denigra il figlio anche se per scopi educativi.
Così si è espressa la Cassazione penale con la sentenza n. 30436/15, respingendo il il ricorso di un padre condannato a un anno e otto mesi di carcere per aver maltrattato il figlio minore e avergli provocato lesioni personali.
Secondo l’uomo gli abituali maltrattamenti, le umiliazioni e i continui rimproveri avevano una funzione pedagogica, cioè erano dei mezzi finalizzati esclusivamente a uno scopo educativo. Ma la Cassazione non ha dubbi: l’uso abituale di violenza a scopi educativi concretizza il reato di maltrattamenti in famiglia. Nel concetto di maltrattamenti rientrano non solo comportamenti violenti, ma anche «abituali espressioni offensive e degradanti» ai danni del minore: il termine correzione va assunto come sinonimo di educazione e non può ritenersi tale l’uso abituale della violenza a scopi educativi, sia per il primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità delle persone, anche del minore, ormai soggetto titolare di specifici diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione, sia perché non può perseguirsi quale meta educativa lo sviluppo armonico della personalità usando un mezzo violento che tale fine contraddice». L’abuso di mezzi di correzione violenti concretizza – a giudizio della Corte suprema – il reato di maltrattamenti in famiglia e non rientra nella fattispecie prevista dall’articolo 571 c.p., «neppure ove sostenuto da animus corrigendi, poiché l’intenzione soggettiva non è idonea a far rientrare nella fattispecie meno grave una condotta oggettiva di abituali maltrattamenti, consistenti, come nel caso di specie, in continue umiliazioni, rimproveri anche per futili motivi, offese e minacce, violenze fisiche