Quando ci si separa, la conservazione del tenore di vita è un obiettivo solo tendenziale.
Lo ribadisce la Corte di Cassazione, con sentenza depositata l’11 luglio 2013 n. 17199: è vero che la conservazione di un tenore di vita analogo a quello goduto nel corso della convivenza matrimoniale rappresenta il fine dell’assegno di mantenimento, come indicato anche dall’art. 156 cod. civ., ma tale obiettivo è meramente tendenziale e non sempre realizzabile, se si tiene conto degli effetti economici negativi che la separazione inevitabilmente comporta.
Con la cessazione della convivenza, infatti, vengono meno i vantaggi economici che da essa derivano, con inevitabili riflessi sulle disponibilità del coniuge obbligato a versare l’assegno.
Questi effetti sono considerati dal legislatore che, nel regolare l’assegno di mantenimento, ha espressamente imposto la valutazione non solo dei redditi dell’obbligato, ma anche di altre circostanze, non indicate specificamente né determinabili a priori, ma da individuarsi in tutti quegli elementi fattuali di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito dell’obbligato ed idonei ad incidere sulle condizioni economiche delle parti (sul punto la giurisprudenza è costante).
Il Giudice non è tenuto a considerare tutti i parametri, essendo sufficiente che egli dia un’adeguata motivazione dell’esigenza di ristabilire l’equilibrio tra le posizioni economiche delle parti, sulla base di un esame comparativo dei loro redditi e delle loro sostanze, nonché del tenore di vita goduto dal nucleo familiare nel corso della convivenza.
L’importo del nuovo assegno, modificato tra il giudizio di primo e secondo grado, decorre dalla data della decisione di primo grado, in applicazione del principio per cui «un diritto non deve restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio».